Capirai che grande novità, I due Papi di Netflix: Benedetto XVI presentato come un pastore burbero, ancora arroccato su concezioni dottrinali divisive ed esclusiviste, incapace di affrontare la questione dei preti pedofili, dalla fede vacillante («Non sento più la voce di Dio»), diciamo pure un po’ rincoglionito; il tutto in altrettanto ovvia antitesi ad un Jorge Mario Bergoglio buono, misericordioso, chiaramente santo. E, soprattutto, pronto a traghettare la Chiesa verso il Vangelo lungamente tradito («Il carnevale è finito», gli fanno dire, appena eletto papa, per motivare il suo rifiuto della tradizionale porpora).

Ora, che papa Francesco goda dell’incondizionato favore dei media non è una novità – Eugenio Scalfari lo esalta, ogni suo gesto è osannato come «apertura», eccetera -, e non resta che augurarsi ciò possa evangelizzare nuovamente l’Occidente scristianizzato, anche se per ora segnali in tal senso, ahinoi, scarseggiano. Viene però da chiedersi per quale motivo, a distanza di anni dalla sua rinuncia, tornare ad attaccare ancora la figura di Benedetto XVI con una serie in cui il papa tedesco è demonizzato mentre il suo successore argentino è quasi divinizzato. Cui prodest? L’interrogativo, a questo punto, sorge spontaneo.

La sensazione è che Benedetto XVI, che resta amatissimo dai fedeli, dia ancora fastidio. Un enorme fastidio alla cultura dominante di cui Netflix è ancella. Non si spiegherebbe se no come mai un uomo di grande dolcezza – chiunque abbia incontrato Ratzinger lo definisce così – sia tutt’ora presentato come inquisitore. Talmente inquisitore da aver dedicato la prima enciclica all’amore, con espliciti riferimenti all’eros («L’eros vuole sollevarci “in estasi” verso il Divino, condurci al di là di noi stessi», Deus Caritas Est); così cattivo da aver riavvicinato tanti alla Chiesa («Mi è piaciuto subito. La prima volta che l’ho visto ho sentito qualcosa dentro e mi sono molto riavvicinato alla fede», disse per esempio il cantautore Franco Califano).

Spregevole è poi il tentativo netflixiano di far passare papa Benedetto XVI come uno chiuso, incapace di un dialogo armonioso con il futuro papa Francesco. Un tentativo che funziona solo con chi non sa Ratzinger che ha dialogato perfino con giganti del pensiero laico come Jürgen Habermas, incantando filosofi non cattolici come Costanzo Preve («Ratzinger è un filosofo di primo livello»). Insomma, pur con il rispetto dovuto a un attore come Anthony Hopkins, prestatosi a un’interpretazione credibile come una moneta da tre euro, il vero Benedetto XVI non è diverso da quello di Netflix: è l’opposto. E merita d’essere riscoperto e ringraziato, per tutto ciò che è stato ed è, in opposizione ai suoi infaticabili detrattori.

Giuliano Guzzo

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