A seggi aperti e polemiche speriamo concluse, non possiamo non constatare come le elezioni europee un verdetto lo abbiano già emesso: una certa Europa è finita. Quale? Ma quella dell’austerità e del rigore, degli eurofili e degli euroinomani, del «che bello stare uniti» e del «ce lo chiede l’Europa». Comunque vada a finire oggi, quel modello è sul viale del tramonto. E questo, si badi, per un motivo molto semplice, ammesso dagli stessi sostenitori dell’Unione così com’è: il sogno europeo non esiste più. E’ scomparso, anzi evaporato in un dibattito politico da tempo dominato solamente da un tema: lo spauracchio dei sovranisti e il disastro che potrebbe succedere se i Salvini, le Le Pen e gli Orbán dovessero prevalere.

Ma in politica come nella vita, nel consenso elettorale come nelle relazioni, la paura di quel che potrebbe capitare giammai può divenire ragion d’essere. Il continuo richiamo al pericolo sovranista – all’occorrenza chiamato addirittura «nazionalista» – è dunque la prova di un’agonia del progetto europeo molto più grave rispetto alla stessa diagnosi della narrativa sovranista. In altre parole, i primi a non credere all’Europa sono proprio quanti da un lato non fanno che occuparsi della minaccia euroscettica e, dall’altro, ricorrono a richiami agli «Stati Uniti d’Europa» troppo privi di entusiasmo per apparire credibili. Se siamo arrivati a questo, è quindi tempo di chiedersi come mai. Perché ora l’Europa non ha che due strade davanti: quella di una rapida autocritica o quella di un lungo addio.

Giuliano Guzzo

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