L’esercizio di un libro di seconda elementare, reo di suggerire accostamenti politicamente scorretti fra soggetti e verbi – «la mamma stira» e «il papà lavora» -, ha infiammato i social, notoriamente popolati da analfabeti funzionali, salvo quando la polemica è progressista. In quel caso tutto cambia e infuriarsi va benone, anzi diventa indicatore di civiltà. Devo quindi essere proprio un incivile dato che non m’accontento di non scaldarmi. Nossignore, vado oltre e rammento come, statistiche alla mano, la celebrata emancipazione della donna non abbia affatto sollevato madri e mogli dai lavori domestici.
Al contrario, negli ultimi decenni si è solo aggiunto un lavoro a quei lavori che, anche nei Paesi più egualitari, rimangono per lo più sulle spalle femminili. I numeri al riguardo sono chiarissimi. Senza dimenticare, poi, come il mito della carriera a tutti i costi, così poco saggio e così tanto calvinista, abbia reso le donne di oggi più insoddisfatte e meno gratificate di quanto non lo fossero ieri. Tutte cose che gli indignati speciali omettono o ignorano. Il punto vero non è cioè quello che dicono o non dicono i libri delle elementari. Il punto è che gli alfieri del femminismo 2.0 sembrano essersi fermati a quelli.
No, mi dispiace, su questo non sono d’accordo. E il verbo che m’indigna riferito al padre non è tanto “lavora” quanto “legge”.
Vogliamo dar retta a Filippo da Novara che sosteneva che l’istruzione sufficiente per le donne fosse quella ai lavori domestici (a meno che non se ne volesse fare una monaca) perché la donna per natura non sarebbe portata per la sapienza?