Neppure adesso, che l’ipotesi del decesso per overdose pare definitivamente tramontata, per la povera Pamela Mastropietro – fateci caso – si parla di “femminicidio”. Come mai tanta, irrituale prudenza? “Femminicidio” è solo quando una donna viene accoppata dal proprio ex, altrimenti il delitto è trascurabile? O forse in si è autorizzati a impiegare il termine “femminicidio” solamente se il sospetto è di nazionalità italiana? Un dubbio, il secondo, che sembra suffragato da precedenti. Come quello di Ashley Olsen, statunitense trovata nel suo appartamento a Firenze il 9 gennaio 2016: il suo assassino, un senegalese con precedenti per spaccio di droga, è stato individuato e condannato a 30 anni.

Ciò nonostante allora, come per il caso della diciottenne romana uccisa e poi smembrata, il “femminicidio” fu tirato in ballo cautamente, solo en passant. Il che rafforza seriamente il sospetto non solo che vi siano vittime di serie A e di serie B, ma che l’impegno contro la violenza di genere, per com’è portato avanti da molti, si basi su un identikit aprioristico del colpevole: il cittadino italiano o, per essere precisi, l’«uomo bianco» (copyright Rula Jebreal). Si spiegherebbe così come mai tra le personalità più impegnate nella prevenzione e nella condanna del “femminicidio” figuri sovente – non serve che faccia nomi – chi è già entusiasta sostenitore dell’accoglienza e della retorica immigrazionista.

Dopodiché è ovvio che la gran parte delle donne uccise da uomini, da noi, abbia un assassino italiano (ma dài) ma il ragionamento, qui, verte su altro: il salvacondotto mediatico di cui godono, a parità di accuse e responsabilità, alcuni e non altri. Un doppiopesismo spiegabile con una miscela di ipocrisia e di politicamente corretto, che se da un lato smaschera l’ennesima contraddizione del femminismo 2.0 – lo stesso che mai ha speso parole contro gli aborti selettivi delle nasciture ree solo di essere femmine, pratica diffusa in diverse comunità straniere in Italia -, dall’altro deve farci riflettere su un’informazione che di fatto, pur non eseguendo ordini (mi risparmierei l’accusa di complottismo, almeno quella), sposa l’agenda politica progressista.

Giuliano Guzzo

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