Si fa un gran parlare, in questi giorni, di biotestamento. Ed è comprensibile, essendo appena stata approvata la legge sulle Disposizioni Anticipate di Trattamento. Solo che non è sempre stato così, anzi. Per anni l’argomento, pur ciclicamente emerso sui grandi media – per lo più in occasione delle vicende di Piergiorgio Welby, Eluana Englaro e dj Fabo – non è interessato, diciamolo, quasi a nessuno. Fra i pochi che se ne sono occupati, al di fuori del circuito accademico intendo, credo che possa essere incluso il sottoscritto: scrissi il mio primo articolo di bioetica, su una rivista che ora neppure esiste più, proprio sul biotestamento e i suoi rischi. Dieci anni fa.

Da allora ho partecipato, anche come relatore, a diversi dibattiti ed è il ricordo di uno di questi che, ora, vorrei condividere. Si trattava di una serata di approfondimento – sul biotestamento, appunto – che vedeva tre relatori: un medico, che doveva esporre la sua esperienza pluridecennale nelle corsie d’ospedale, una persona favorevole alle DAT e il sottoscritto, che invece era (ed è) del tutto contrario. Ebbene, rammento come il dibattito si sviluppò pur con incolmabili divergenze tra me e la relatrice pro biotestamento, in modo in fondo pacifico, cosa non scontata in questi casi. Ricordo pure gli argomenti che, in quella come in altre occasioni, cercai di esporre.

No, non mi riferisco all’idea secondo cui la vita è di Dio e quindi solo Lui può toglierla. Non alludo neppure a qualche astrazione filosofica ma solo, molto banalmente, alle trappole che le DAT comportano: la cristallizzazione di volontà terapeutiche su un futuro e una condizione del tutto sconosciuti; la possibilità assai elevata che le volontà terapeutiche di ognuno di noi (spesso senza che ce ne rendiamo del tutto conto) mutino; il rischio che si diano disposizioni senza minimamente conoscere gli scenari clinici sui quali ci si esprime; l’altra probabilità che il fiduciario, pur in buona fede, interpreti male le volontà del testatore che l’ha nominato, e così via.

Portai anche con me, quella sera, un modulo di biotestamento: un misero foglietto A4 con due vaghissime caselle su cui decidere, barrano, il proprio destino. Alla vista della banalità di un testamento biologico, ricordo che la mia controparte iniziò a scaldarsi: aveva parlato per mezz’ora delle DAT senza però avere il coraggio – chissà conme mai – di esibirne un esempio. Un classico, da parte dei cantori dell’autodeterminazione assoluta. Forse perché, vedendo che cosa in pratica sono le DAT, la gente capirebbe che è più serio il modulo di consenso informato dell’igenista dentale, rispetto a quello con cui si decide della propria morte?

Chissà. Fatto sta che, a fine dibattito, avvenne un fatto rimastomi impresso. Il medico, che durante la serata aveva correttamente evitato di esporsi pro o contro il biotestamento, mi avvicinò e, a tu per tu, mi disse: «La ringrazio, perché ha parlato bene. Sul biotestamento, le cose stanno proprio come dice lei. Per noi medici conta avere un rapporto libero col paziente, assisterlo. Le DAT non servono». La sala, quando il dottore mi fece questa confidenza, era ormai mezza vuota. Nessuno sentì, ma per me fu una vittoria. Il pubblico, infatti, non era tutto dalla mia parte, anzi. Chi però conosceva meglio di tutti il “fine vita”, sì. E quello, a me, fu più che sufficiente.

Giuliano Guzzo

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«Un passo gigantesco oltre la sociologia» (Tempi)

«Bellissimo libro» (Silvana de Mari, medico e scrittrice)

«Un libro che sfata le mitologie gender» (Radio Vaticana)

«Un’opera di cui ho apprezzato molto l’ironia» (S.E. Mons. Luigi Negri)

«Un lavoro di qualità scientifica eccellente» (Renzo Puccetti, docente di bioetica)

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