Adesso che la vicenda che ha commosso e mosso per settimane il mondo volge tristemente al capolinea, e Charlie Gard è stato ucciso – pardon «lasciato andare», come usa dire il giornalismo al guinzaglio della cultura dominante -, si può tentare di trarre qualche conclusione su questa vicenda anomala sotto innumerevoli punti di vista. A partire dal fatto che, quello per la prima volta in assoluto, un bambino malato è stato eliminato senza alcun consenso né richiesta, anzi in netta opposizione alla volontà dei genitori, che si sono battuti come leoni per il loro piccolo.
Anzi no, aspettate. Forse un precedente esiste. E sta in questa comunicazione: «Devo comunicarvi il mio rammarico nell’informarvi che il bambino è morto […] per infiammazione delle vie respiratorie […] Egli non aveva fatto alcun tipo di progresso durante il suo soggiorno qui. Il bambino non sarebbe certamente mai diventato utile alla società ed avrebbe anzi avuto bisogno di cure per tutta la vita. Siate confortati dal fatto che il vostro bambino ha avuto una dolce morte». Parole pacate e cariche di umanità, non è vero? Pare proprio un Comunicato di queste ore, diretto ai genitori di Charlie.
Peccato che si tratti della lettera, datata 6 febbraio 1943, che lo psichiatra nazista Ernst Illing (1904-1946) indirizzò, firmandola di suo pugno, ai genitori di uno dei tanti bambini assassinati sulla base del programma svolto dai Reparti Speciali infantili. Non è uno scherzo, la si può trovare in formato originale su Wikipedia. La prima lezione del caso Gard, dunque, sta nel ritorno di un orrore che credevamo sepolto, ossia quello di uno Stato, coadiuvato da medici dalle sembianze amorevoli, che si arroga il diritto di liberare – per il loro bene, ovvio – i letti dei pazienti che non fanno registrare «alcun tipo di progresso».
Il secondo insegnamento che la vicenda inglese impartisce a tutti noi, è la totale deformazione del concetto di accanimento terapeutico: un tempo ben circoscritto a quelle terapie (quindi rivolte contro una malattia) sproporzionate, inefficaci o addirittura controproducenti, oggi è indebitamente esteso alle cure (quindi rivolte a tutela di una persona) indirizzate a un soggetto che abbia la sola colpa di versare in una condizione curabile, ma non guaribile. Apparentemente di lana caprina, la questione è in realtà epocale: significa che se sei malato senza prospettive di guarigione, d’ora in poi, faresti bene a guardarti alle spalle.
No, beh, dài, esagerato. Già me li immagino, commenti così. Eppure, chi fino non a dieci anni or sono, ma a un solo anno fa, avrebbe mai pensato che un bambino sarebbe potuto essere tenuto in ostaggio in un ospedale per essere poi eliminato – col placet della Corte europea dei diritti dell’uomo! – in opposizione alla volontà di chi l’ha messo al mondo? Nessuno, evidentemente. Eppure è accaduto. O, meglio, ri-accaduto, come il ricordato esempio nazista dimostra. Ebbene, chi ha familiarità con gli studi bioetici sa che esiste un concetto, quello di chi «china scivolosa», secondo cui, fatto un passo grave, ne seguirà prima o poi, uno ancora più drammatico.
Nel frattempo – terza e ultima considerazione, la sola positiva – si è però fieramente ricompattato un fronte, quello pro-life, che sa che Charlie è morto, ma vive. Che il suo sacrificio non è vano perché ora il suo ricordo risplende accanto a quelli di Terry, di Eluana e dello sconfinato esercito dei bambini abortiti (per «il loro bene»!), tutta gente che, nella società dell’accoglienza a parole, non è stata accettata. Ma rimane e rimarrà saldamente nella memoria di quanti, benché ora sconfitti, continueranno a combattere per coloro che, pur versando in condizioni di malattia, anche grave, hanno tantissimo da da dire – e da dare – a un mondo allo sbando, che incapace d’interrogarsi sul dolore e sulla malattia, ha preso a eliminare i malati.
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Charlie era tenuto in vita con un respiratore esterno ed alimentato artificialmente, in attesa che i suoi organi si spegnessero. Charlie era un cittadino britannico, e lo Stato di quel Paese gli doveva la tutela anche dalla inutile sofferenza, che i genitori, comprensibilmente riluttanti a rassegnarsi forse non volevano comprendere. Io non lo so dove stia la ragione, la verità, ma quando la medicina può tenere in vita una persona indefinitamente anche per anni sottoponendola ad una condizione innaturale e quando la persona non può piu’ (o ancora nè mai, come nel caso di Charlie) comunicare la propria accettazione degli interventi esterni deve porsi la domanda se tenere in vita la persona valga le pene che la persona affronta. Il parallelo con la lettera dello psichiatra Illing, purtroppo una volta di più, manca l’occasione di affrontare questa domanda senza ideologie. Non sento alcun bisogno di ideologie per affrontare tale questione.
E’ stato lo stesso ospedale ad affermare che non si era in grado di determinare se Charlie soffrisse o meno; anche i genitori hanno più volte ripetuto che, se fosse stato chiaro lo stato di sofferenza del figlio, avrebbero “staccato la spina”.
Assumere quindi la sofferenza come parametro valutativo almeno nel caso de quo era impossibile.
Anche se si volesse fare della sofferenza un criterio valutativo, sorgono dei problemi non da poco: la sofferenza è oggettiva o soggettiva?
Se è oggettiva (e ciò è tutto da dimostrare: come si “misura” la sofferenza?), come sembri propendere tu, allora lo stato può terminare una vita, anche contro la volontà del soggetto, quando il paziente si trova in una condizione che viene ritenuta di sofferenza, perché la “qualità della vita” non è sufficiente. Se seguiamo questo ragionamento, allora dovremmo “staccare la spina” a tutti i malati in stato vegetativo, disabili gravi o meno, affetti da malattie neurodegenerative la cui prospettiva di miglioramento è pressoché pari a zero.
Se invece è soggettiva, allora lo stato deve collaborare al suicidio o all’eutanasia della persona che ritiene la propria sofferenza insopportabile, in qualsiasi situazione. Ovviamente per “sofferenza” si intende sia quella fisica che quella morale, per cui sarebbe legittimo il suicidio assistito per la perdita di una persona cara (v. il caso dell’ex PCI Lucio Magri, suicida in Svizzera nel 2011) o anche per motivi ritenuti assai più futili. Ciò che conta è la decisione del soggetto il quale è giudice insindacabile della propria sofferenza.
Ancora più problematico è il ragionamento, fatto proprio dalla Corte, che, partendo dal condivisibile intento di ridurre la sofferenza di Charlie, fa della morte il migliore interesse per il paziente. Infatti la tutela dell’interesse ha senso perché rimanda alla tutela del portatore dell’interesse stesso: una tutela dell’interesse a scapito del suo portatore è semplicemente priva di senso. In questo caso, la Corte ha ritenuto che il miglior interesse di Charlie coincidesse con la sua morte; in sostanza la migliore tutela per l’individuo, la pienezza dei suoi diritti si è rovesciata nel suo contrario, cioè l’annullamento dell’essere stesso del individuo. Una capriola logica di non poco conto!
Michele, ho già avuto modo di discutere con te e di apprezzare il tuo formalmente rigoroso approccio giuridico alla materia bioetica. Non sono stato d’accordo con te in altre occasioni e nemmeno in questa lo sono. Forse perchè non sono abbastanza rigoroso. Ma, visto che tu te lo chiedi, si può verificare se una persona soffre oppure no, perchè nel cervello si attivano certe aree se soffre e certe altre se gioisce. Un elettroencefalogramma può individuare quali aree del cervello sono elettricamente attive e, quindi, se sta soffrendo o meno. Ho letto proprio oggi un articolo scritto da un medico dell’ospedale che ha curato Charlie. Sosteneva che per lui non si poteva fare più nulla. L’articolo non riportava la presenza o meno di sofferenza di Charlie, ma credo che nessun medico gli abbia negato un semplice elettroencefalogramma per verificare se soffrisse o meno e credo anche che un giudice (anzi più di uno, visto che i gradi di giudizio sono stati diversi), abbia fatto ai medici la domanda fondamentale: “Ma questo bambino sta soffrendo o no?” Questo è il punto dirimente, a mio parere. Charlie non poteva comunicare e, data la sua età, anche se l’avesse potuto fare non avrebbe potuto imbastire pensieri comprensibili. Non poteva togliersi la vita, a causa della sua età. Lo Stato deve solo tutelare la vita del singolo e mai togliergliela. Ma quando la vita del singolo non può più sostenersi da sè e la medicina gliela sta sostenendo dall’esterno, questa condizione ARTIFICIALE deve essere vagliata dalla domanda: ” Tenerlo in vita artificialmente vale le pene che costui sta patendo?”. Tu salti a piè pari questa domanda, e non affronti la condizione in cui una persona sia dipendente da terapie o attrezzature esterne. Dici che quando la sofferenza è oggettiva lo Stato dovrebbe collaborare al suicidio della persona, anche se capace di mantenere la propria vita con i propri mezzi. Io invece dico che lo Stato non deve intervenire quando la persona puù mantenere la propria vita con i propri mezzi. Se questa persona non vuole più vivere si tolga la vita da sola. Se invece la vita è tenuta … in vita con interventi esterni (come nel caso di Welby) allora la persona ha diritto a rifiutare tali interventi esterni, pur per se vitali. Se questa persona non può comunicare (come nel caso di Charlie) allora è dirimente il fatto che soffra. Molti secoli fa era considerato un gesto di pietà il “colpo di grazia”, con cui il commilitone (lo stesso compagno d’arme, non il nemico) uccideva l’amico, colpito senza possibilità di cura e destinato a soffrire fino alla inevitabile morte. Questo trattamento lo riserviamo ai nostri amici cani, per pietà e non certo per violenza o per “cultura della morte”. Ma di riservarlo agli uomini che continuano a vivere artificialmente, ma senza prospettiva di ripresa (anzi, solo di declino inevitabile) e sofferenti, neanche a parlarne. Mah …
Charlie era tenuto in vita “artificialmente” ed era cittadino di uno Stato schiavista. Solo uno Stato schiavista può infatti decidere di non “tenere in vita” una persona (privando lo stesso della libertà di vivere…) nascondendosi sotto il paramento delle “inutili sofferenze” e dell’ “accanimento terapeutico”.
1) Significato e limite di essere genitori… a cosa servono i genitori e perché fare figli in uno Stato schiavista quando é lo Stato schiavista che decide le modalità, i tempi, i perché della morte?
2) La medicina e la ricerca medica hanno sempre “un giorno dopo” (per definizione) e non essere pronti per “il giorno dopo” é una ulteriore violenza anche per i poveri bambini che si troveranno in futuro nella situazione di Charlie. Mesi persi per puttanate da azzeccagarbugli e per dirimere posizioni egoiste ed insensate di qualche specialista inglese… La morte di Charlie ha un preciso responsabile: una società “malata” governata da leggi “malate”.
3) Il dolore può essere contenuto o eliminato. Quando poi il concetto di “accanimento terapeutico” diventa solo il paramento per nascondere i mezzucci che regolano l’egoismo umano o anche solo per celare scelte a valore quasi esclusivamente economico siamo alla frutta.
4) La realtà così delicata come quella di Charlie NON può essere affrontata utilizzando una legislazione per dirimere le scelte proprio perchè le “scelte” in questi casi sono SEMPRE figlie del contingente e della situazione relativa.
5) Si é scritto sul fatto che l’ospedaletto inglese che aveva in cura Charlie si informò circa l’assenza di terapie o cure alternative. Improvvisamente qualche flebile lucina alla fine del tunnel é saltata fuori… ma per merito di chi? In uno Stato veramente “civile” come andava a finire la faccenda se i genitori avessero avuto più libertà di muoversi e applicare la responsabilità che il diritto naturale a LORO conferisce?
Guzzo richiama la frase: “Il bambino … avrebbe anzi avuto bisogno di cure per tutta la vita. Siate confortati dal fatto che il vostro bambino ha avuto una dolce morte…”. Queste parole, da qualunque situazione o livello etico emergano, non potranno che ricevere sempre e comunque una sola valutazione.
Splendido articolo, come sempre