Dispiace deludere gli amici di sinistra (e quelli di destra con le idee poco chiare) ma il venerato antifascismo, al pari dell’anticomunismo, è un valore relativo. Può cioè essere considerato di un valore fondante, ma di fatto non lo è. Per due ragioni: anzitutto, come dice la parola stessa, assume significato a partire dal suo essere antitetico, dal suo netto rifiuto ad uno specifico equilibrio – sarebbe meglio dire squilibrio – della politica. Non a caso risulta oggettivamente difficile insegnare l’antifascismo a chi, vuoi ignoranza vuoi troppo giovane o perché proveniente da realtà lontane, ignori che cosa sia stata, storicamente, l’esperienza fascista.
Anche la seconda ragione che motiva la carenza dell’antifascismo come valore assoluto risiede nell’imprescindibile riferimento che questo, sul piano terminologico e sostanziale, ha nel fascismo. L’antifascismo, per farla breve, orienta quindi chi lo professa vero regimi politici differenti e opposti al Ventennio, ma non spiega – e qui sta il suo grosso limite – quale forma di governo meglio si presti ad essere proposta e vissuta dai cittadini. E non è poco. Per meglio comprendere questo passaggio possono aiutarci degli esempi. Pensiamo ad Antonio Gramsci (1891–1937): era l’antifascista per antonomasia ma non perché innamorato della democrazia, tutt’altro.
Oppure pensiamo a Giorgio Bocca (1920–2011): prima fascista, divenne poi antifascista ma certo non si può dire che accettasse di buon grado, come si dovrebbe fare in democrazia, il parere della maggioranza dei suoi concittadini, specie quando votavano il cattivone di Arcore. La stessa metamorfosi politica di Gianfranco Fini – così sorprendente e radicale – dovrebbe farci almeno riflettere sulla credibilità di quanti professano l’antifascismo, magari credendolo sinonimo di uguaglianza. Sono solo tre differenti esempi che tuttavia possono farci intuire l’insufficienza, per chi aspiri a vivere in una democrazia solida, del celebrato riferimento all’antifascismo.
Dietro a tutto questo, c’è una spiegazione fin troppo semplice: l’antifascismo – che pur ne viene spesso considerato una premessa – non coincide affatto con la democrazia; gli antifascisti, nel Novecento, furono sì i cattolici e i liberali, ma pure i comunisti lo erano. La prova provata che l’antifascismo sia cosa altra da un’idea compiuta e condivisibile della politica, infine, ci viene proprio dalle parole di un’antifascista orgoglioso e militante quale era Piero Gobetti (1901-1926), che scrisse: «L’antifascismo è una questione di aristocrazia, di nobiltà, di stile; è una dignità che si acquista con le rinunce e coi sacrifici» (“Rivoluzione Liberale”, 12/2/1924).
Parole come queste, che pure suonano condivisibili, dovrebbero però chiarire come l’antifascismo, in quanto concetto polisemico e direttamente intelleggibile solo nel suo opporsi al fascismo, sia purtroppo un valore poco spendibile al fine di una completa definizione delle ragioni dell’unità tra cittadini, magari estranei all’esperienza fascista e pertanto incapaci di lasciarsi sedurre dall’idea di “rinunce” e “sacrifici”. A suffragio di quest’ultima affermazione, possiamo ricordare come alcuni episodi della Resistenza, maggiore epifania dell’antifascismo, furono contrassegnati da sconfinata violenza.
Tanto è vero che qualche storico ha avanzato l’ipotesi che l’antifascismo e la Resistenza, a conti fatti, possano esser stati ben più sanguinari dell’intero Ventennio. Un’altra interessantissima considerazione sull’antifascismo è quella a suo tempo fece Augusto Del Noce (1910–1989) nella sua fondamentale opera, “Il Suicidio della Rivoluzione” (Rusconi, 1978). Del Noce, portando a compimento una straordinaria intuizione di Giacomo Noventa (1898–1960), afferma che l’antifascismo, in realtà, non solo non risulta alternativo al fascismo, ma addirittura ne sarebbe culturalmente consustanziale.
Antifascismo e fascismo, secondo questa prospettiva, sarebbero solo stagioni di una medesima epoca: quella della dissoluzione del sacro, della demitizzazione e dell’immanentismo. Due differenti puntante, insomma, ma dello stesso telefilm. Il ragionamento di Del Noce, molto più articolato e sottile di quanto qui riportato, non solo appare credibile, ma risulta persino dimostrato: decine e decine di pensatori e intellettuali, un tempo affascinati dal fascismo, dal ’43 in poi, divennero improvvisamente cultori dell’antifascismo. Un fenomeno troppo ampio e consistente per essere liquidato come opportunismo, e che, appunto, offre innumerevoli riscontri probatori al pensiero, incompiuto, di Noventa.
Con queste considerazioni, riassuntive di un ragionamento che sarebbe molto più lungo, non s’intende in alcun modo operare una dequalificazione dell’antifascismo. Urge ribadirlo perché è facile immaginare – tanto più in tempi di semplificazioni quotidiane – lo sdegno di chi considera una critica diretta alla portata dell’antifascismo quale una indiretta e subdola legittimazione del fascismo. Nulla di tutto questo. Infatti, evidenziare l’insufficienza e la relatività dell’antifascismo dimostra il contrario, e cioè la volontà manifesta di approdare ad una più duratura e convincente definizione di che cosa sia la democrazia. Per farlo, soffermarsi su che cosa questa non sia è troppo poco.
Nessuno nega che l’antifascismo, nella sua eufonia, eserciti suggestioni importanti, evochi ricordi. Il punto è un altro: la democrazia è un sistema politico troppo prezioso e complesso per essere letto in sola antitesi a qualcosa o a qualcuno. Sarebbe come riconoscere ad un re la sua legittimità solo in quanto ostile ad un altro re: assurdo. Un regnante ha una legittimazione propria, che non dipende affatto da quello che accade “fuori”. Ebbene, allo stesso modo la democrazia ha un valore a prescindere – se pensiamo all’Italia – da quel che è accaduto “prima”. L’antifascismo, insomma, non basta.
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Il paradosso di Giorgio Bocca è che, prima fascista, poi antifascista (e fucilatore di soldati della RSI), rimase sempre un fazioso intollerante delle opinioni altrui. Ossia un “fascista”