La mia generazione, al pari della precedente, non ha partecipato né ha fatto Resistenza: l’ha ereditata. E con la Resistenza la Festa odierna, quella del 25 aprile, che nel 1945, com’è noto, vide liberate le città di Milano e Torino, e che oggi è celebrato come Liberazione dall’occupazione nazionalsocialista, fine del ventennio fascista e della Seconda Guerra Mondiale. Il modo di intendere l’evento della Liberazione, com’è chiaro a tutti, è strettamente legato al fenomeno della Resistenza: dal significato attribuito alla prima dipende la seconda, e viceversa. Impossibile anche solo immaginare una scissione fra i due. Ebbene, sotto il profilo storico vi sono e soprattutto vi sono stati almeno tre modi di intendere la Resistenza: quello comunista, quello moderato e quello azionista.

La lettura azionista vide nella Resistenza una sorta di rivoluzione tradita che, col compromesso fra cattolici, socialisti e comunisti, ha riportato l’Italia nella condizione prefascista. La lettura moderata intese la Resistenza come lotta per la riconquista della libertà perduta sotto il fascismo, mentre invece la lettura comunista, più “partitica” delle altre, attribuì alle forze comuniste la regia della Liberazione. Il problema è che di queste differenti interpretazioni della Resistenza, per decenni, non si seppe nulla dal momento che fu solo una – quella comunista – a prevalere: prevalse nelle università, nella scuola, nella cultura, sulla stampa. L’esito di questa supremazia ha determinato una pluralità di conseguenze sul piano storico, politico e culturale: tre conseguenze che, in sintesi, possiamo definire miti.

Anzitutto, nacque il mito dei partigiani rossi come unici artefici di una Liberazione che non solo vide combattere anche altri partigiani, ma non sarebbe mai stata possibile senza il supporto militare degli Alleati. Sul piano politico nacque il mito dell’Antifascismo che da un lato, come concetto, eclissò la ben più chiara prospettiva dell’Antitotalitarismo inteso come rifiuto non di uno bensì di tutti i regimi totalitari, e, d’altro lato, da prodotto storico divenne metro per giudicare la storia. Col prevalere della prospettiva culturale comunista si è cioè avuta un’elevazione dell’Antifascismo a valore assoluto e non relativo, come lo stesso termine indica, ad un fenomeno storicamente compiuto e circoscritto. Di qui il perdurare dell’Antifascismo che, benché concettualmente discutibile, è ancora oggetto di un culto che non ammette critica, pena l’accusa di simpatie fasciste.

Il terzo ed ultimo esito del dominio della lettura comunista della Resistenza è culturale e concerne l’impossibilità di discutere quello che, a Guerra conclusa, si verificò in Italia: rappresaglie, vendette e molto altro, incluso il silenzio su crimini quali quelli delle foibe. Eppure si sa che dopo il 25 aprile 1945, specie per mano comunista, scontri e violenze continuarono – come dimenticare infiniti episodi, dall’eccidio di Schio (54 vittime) al linciaggio di preti proseguito fino al 1951? – e, reintrodotta la pena di morte, in 22 mesi furono mandate al muro 88 persone (sotto il fascismo in 17 anni il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato emanò 42 condanne a morte, e ne furono eseguite 31). Il 25 aprile fu quindi una liberazione parziale. Ciò nonostante, il solo mettere in discussione il ricordato mito dell’Antifascismo e la bontà di tutto ciò che venne dopo la Liberazione per molto tempo – e in larga parte pure oggi – venne considerato oltraggio alla memoria.

Tanto che persino a uomini di sinistra – ne fu un esempio, qualche anno fa, il sindaco di Trieste Riccardo Illy, che propose di abolire il 25 aprile per essere poi sommerso da critiche – è sostanzialmente proibito discutere il mito della Resistenza. Negli ultimi anni – complice anche la crisi della politica e delle identità partitiche – la lettura comunista della Liberazione, così a lungo egemone e generatrice dei miti storici, politici e culturali che abbiamo visto, ha iniziato ad eclissarsi e non possiamo che rallegrarcene. Non per negare il doveroso omaggio ai tantissimi partigiani caduti in combattimento – furono 44.720 secondo l’Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza curata da Pietro Secchia (1903-1973) – ma per ristabilire la verità storica. La verità di una Resistenza come fenomeno politicamente multiforme, costellato di eroismo ma anche di pagine assai poco nobili e purtroppo – in più di qualche caso – decisamente oscure, per non dire orribili.

Fino a quel momento, fino a quando cioè continuerà a prevalere un’ottica di parte oppure volta a banalizzare, polarizzandola, la storia – come se tutti gli aderenti al fascismo fossero antropologicamente inferiori ed intrinsecamente malvagi e tutti i partigiani, invece, fossero indistintamente eroi, e come se non vi siano stati, soprattutto, molti antifascisti divenuti tali solo dopo la fine del Ventennio – non sarà la vera Liberazione, quella festeggiata il 25 aprile: sarà una specifica Liberazione, un prodotto confezionato non già per con-dividere bensì per dividere, per servire una propaganda, per attribuire solo colpe senz’alcuna assunzione di responsabilità. In questo modo saranno purtroppo molti a non riconoscersi in questa Liberazione, in attesa che il tempo ne porti un’altra, a questo punto persino più decisiva: quella dalla menzogna. Quella che consentirà a tutti – finalmente, viene da dire – di sapere com’è andata veramente e all’Italia, finalmente, di fare pace col proprio passato.

Giuliano Guzzo

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