testamento

Dieci anni fa esatti scrissi un articolo –  I rischi (nascosti) del testamento biologico, “Alfa e Omega”, 2007– con cui denunciavo senza mezzi termini i risvolti eutanasici del biotestamento. Non può quindi che farmi piacere che dentro e fuori dal Parlamento parecchi, in questi giorni, si stiano accorgendo del problema (meglio tardi che mai!), ma non basta. A differenza di dieci anni fa, infatti, il rischio è che il legislatore introduca veramente nel nostro ordinamento le cosiddette disposizioni anticipate di trattamento (Dat), con tutte le nefaste conseguenze che ciò comporterebbe. Urge quindi che le ragioni di perplessità nei confronti di questo strumento – che solo un’enorme dose di ingenuità può portare ad immaginare quale garanzia dell’autodeterminazione del paziente – siano ribadite con forza.

C’è dunque anzitutto da chiarire un aspetto fondamentale, vale a dire che l’autodeterminazione del paziente esiste già, come principio giuridico, ed è riconosciuto/tutelato dalla Costituzione italiana (art. 32), dal Codice di deontologia medica (art. 35) e dallo stesso Catechismo della Chiesa cattolica, dov’è contenuta una esplicita condanna dell’accanimento terapeutico (CCC, 2278). Quando dunque sentiamo ripetere che le Dat servirebbero per un riconoscimento dell’autodeterminazione del paziente, altrimenti poco tutelata o addirittura sopraffatta dal paternalismo medico, non dobbiamo avere dubbi circa l’impreparazione (o la malafede) di chi sta parlando dal momento che non è affatto così. E’ semmai vero il contrario: il biotestamento, ponendosi come divisorio burocratico dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, compromette fortemente l’autodeterminazione della persona.

In che modo? Anzitutto perché costituisce una formalizzazione di volontà terapeutiche che non sono genericamente – come viene spesso raccontato – quelle del paziente che le sottoscrive, bensì quelle del paziente in quel preciso momento. Non è affatto, si badi, questione di lana caprina dato che in fatto di volontà terapeutiche si è sperimentalmente accertato le stesse persone manifestino intenzioni mutevoli nel corso del tempo; volontà terapeutiche che possono cambiare, talvolta, improvvisamente. Ma anche il contenuto delle Dat – ribatteranno i suoi promotori – può essere rivisto: certo. Tuttavia, se il paziente che avesse sottoscritto il biotestamento, magari indicando la sottrazione di ogni presidio terapeutico, si trovasse a cambiare idea ma impossibilitato ad esprimersi? Che accadrebbe?

La risposta al dilemma l’ha data un pensionato romano che scrivendo ad un quotidiano nazionale, qualche anno fa, argomento così: «Se io, ora che sono sano, firmo un biotestamento ma dopo, nel momento cruciale, quando non ho più possibilità di farmi capire, non desidero più accorciare la mia vita perché sento e vedo ancora, come faccio a tornare indietro dal momento che mi fanno morire di fame e di sete? In pratica avrei firmato la mia condanna a morte» (La Stampa, 3/10/2009). E’ così. E francamente meraviglia che molti che amano parlare di autodeterminazione non si confrontino con quest’eventualità per nulla astratta, come mostrano le agghiaccianti testimoniante di pazienti che, trovatisi in seguito ad un trauma vigili ma impossibilitati a comunicare, hanno vissuto nel terrore al pensiero di essere lasciati morire, indicazione che magari in condizione di perfetta salute avrebbero dato.

A ciò si aggiunta la non trascurabile problematica, ove nominato, del fiduciario, la persona che il paziente indica quale garante dell’osservanza delle proprie volontà di cura: in almeno il 30 per cento di casi, si è sperimentalmente appurato, costui male interpreta le volontà del proprio testatore Ad ogni modo, anche dando per scontata – anche se è tutt’altro che tale – la stabilità delle preferenze terapeutiche di un paziente e la capacità del fiduciario di interpretarle alla perfezione, non è detto che la volontà del testatore sia comunque rispettata. Il perché è semplice, dal momento che questa viene a formarsi in modo decisivo durante il colloquio del paziente col medico. Ma questi di solito colloqui non durano mesi né giorni bensì, come si è appurato in alcune ricerche, addirittura una manciata di minuti.

E dal momento che è stato rilevato come il modo in cui i pazienti presentano le opzioni terapeutiche influenzi grandemente la volontà del paziente sulle proprie cure future, c’è da ritenere quanto meno azzardata l’idea che l’idea che alla fine costui possa davvero autodeterminarsi sottoscrivendo il biotestamento. Ma poniamo pure che il paziente sia davvero libero, incredibilmente estraneo ad ogni influenza e presenti una stabilità di preferenze terapeutiche stabile negli anni – eleviamoci cioè al mondo delle ipotesi meno probabili -, e la sua volontà sia quella di essere lasciato morire: perché in quel caso le Dat sarebbero da rigettare? Semplice: perché il compito del medico non è togliere la vita, ma – ove purtroppo la guarigione da una condizione non fosse possibile – alleviare il più possibile le sofferenze, anche a costo di accorciare l’esistenza ma mai sopprimendola deliberatamente. Perché sarebbe omicidio, un crimine cui nessuno può essere autorizzato. Anche se supplicato.

Giuliano Guzzo

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