I giornali oggi vendono poco. Sempre meno, soprattutto alcuni. Mi rifiuto però di pensare che il titolo in prima pagina sul Giornale di ieri – «Dio non è abruzzese» – risponda a mere logiche di marketing; sia perché se lo facessi sarei comunque tacciabile di essere della concorrenza (scrivo per il quotidiano La Verità, come alcuni già sapranno), sia perché l’editoriale di Tony Damascelli pone questioni oggettivamente rilevanti: «Dov’è Dio in Abruzzo? Non si hanno notizie da quelle parti della presenza del Creatore perché ormai tutto è distrutto, esistenze e dimore, natura e oggetti, il Creato formato da nulla è tornato». Un pensiero simile, sempre con riferimento al terremoto del centro Italia, è stato formulato sui social da Vittorio Sgarbi: «Si ha la sensazione che Dio non si preoccupi degli uomini». Ora, anche se il critico d’arte si è mantenuto su posizioni più caute rispetto a Damascelli – che ha concluso il suo articolo scrivendo che Dio, dopo certe tragedie, rimane solo un pretestuoso e vago «alibi per proseguire» -, direi che il dilemma sollevato da entrambi merita una riflessione. In Abruzzo Dio c’è ancora? Dopo la tragedia dell’Hotel Rigopiano e lo schianto dell’elicottero dei soccorritori, con altri sei morti, si può ancora ragionare come se l’Onnipotente esistesse?
La risposta a questi interrogativi, anche se qualcuno non sarà d’accordo, può essere senza dubbio positiva. Non è infatti l’esistenza di Dio, la criticità che pone il dolore innocente, bensì il suo essere infinitamente buono. Come può coesistere una divinità misericordiosa – è quindi il vero interrogativo – con la manifestazione della violenza talvolta omicida della natura? Anche se non sono un teologo, vorrei affrontare il vertiginoso interrogativo non con uno bensì con tre distinte domande, nella speranza possano aiutare. Lo faccio da cattolico chiaramente, ma non per questo ritengo di farlo appoggiandomi a soli argomenti di fede. Il primo quesito è il seguente: l’esistenza di Dio implica per forza la capacità umana di comprenderne le logiche? Lo chiedo perché mi pare che non di rado si faccia confusione, dando per scontato ciò che tale non è. E forse è proprio questo, ossia l’imperscrutabilità dei progetti divini – che non vale solo per le catastrofi, ma anche per gli eventi lieti (come il salvataggio di alcuni sopravvissuti al Rigopiano: perché proprio loro?) – la cosa, insieme alla sofferenza degli innocenti, più difficile da accettare per noi, infinitamente curiosi. Una maggiore familiarità con la dimensione del mistero, oggi trascurata se non ridicolizzata in favore della pretesa di conoscere, probabilmente aiuterebbe.
Per giungere alla seconda domanda, parto Tommaso d’Aquino (1225-1274), secondo cui allorquando «Dio permette che ci siano i mali», lo fa per «per trarre da essi un bene più grande» (Summa Theologiae, III, q. 1, a. 3, ad 3). Ora, a chi ritiene accettabile questa premessa chiederei: come possiamo escludere – benché le ferite sanguinino ancora e le lacrime non cessino di scendere – che anche una tragedia immane quale quella in corso in Abruzzo possa preludere ad una nuova primavera non solo climatica, ma anche umana, solidaristica e spirituale? E se tutto questo non fosse un’occasione, per i superstiti come anche per noi spettatori a distanza, per riscoprire quell’essenziale di cui spesso ci riempiamo la bocca senza poi trarne le conseguenze? L’ultimo pensiero, più sintetico ma forse più decisivo degli altri, sta in appena due parole: e Gesù? L’accostamento tra terremoto e slavine da una parte e un Dio distante e silenzioso dall’altra, alla lunga, può infatti mettere in crisi. Ma se si cambia prospettiva e si considera l’ipotesi che non solo Dio esista e sia buono, ma sia generoso al punto da averci inviato Suo Figlio lasciandolo martoriare fino alla morte (pur potendo intervenire in qualsiasi istante per salvarlo), forse si può sperimentare il male pensando che, dopotutto, Lui ci è già passato. E adesso è abruzzese.
Concordo pienamente ed aggiungo : cosa ha più valore? La vita terrena che bene o male finirà o…….la vita eterna che Gesù con il Suo sacrificio ci ha conquistato? Dio non è lontano ma più vicino che mai alla sofferenza del mondo e ci aiuta a portarla.
Accantoniamo per un attimo la catastrofe abruzzese. Porsi certe domande è istintivo per tutti e, infatti, non a caso lo stesso Benedetto XVI ad Auschwitz si è chiesto: «Dov’era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Perché ha potuto tollerare tutto questo?». Certo, per chi crede, la risposta a quelle domande c’è, ma è necessario crederci.
Prima di mettere Dio sul banco degli imputati, va ricordato che quell’orrore è nato dalle mani dell’uomo, da quella libertà che è dono mirabile ma che può generare immani tragedie. Dio ha preso sul serio la libertà che ha assegnato all’uomo. Non la smentisce, non lo ferma e non impone nulla, anche quando l’uomo travalica ogni limite fino ad annientare il prossimo.
Eppure la sua non è un’assenza o un silenzio assoluto, anche se la sua voce è inascoltata dalle coscienze accecate dall’odio e dalla libertà impazzita. E alla fine una risposta Dio a suo modo l’ha data. Lo scrittore ebreo Wiesel era tra quei prigionieri e in seguito ha scritto un romanzo “La Notte”, in cui ha descritto una scena straziante nella quale uno dei prigionieri aveva urlato quella stessa domanda: «Dov’è il buon Dio? Dov’è?». Weisel ha confessato: «Io sentivo in me una voce che rispondeva: “Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca!”». Paradossalmente la risposta dello scrittore ebreo è la risposta cristiana che sulla forca vede Cristo, il Figlio stesso di Dio che, rompendo l’isolamento perfetto della sua trascendenza, non è solo accanto alle vittime come un consolatore magnanimo, ma è Lui stesso vittima, perché sulla croce non cessa di essere Dio e quindi di essere il Salvatore.
Ma è necessario crederci per trovare la forza e andare avanti. La parola “Dio” è così carica di significati per la nostra storia e cultura, che usarla senza mettere bene in chiaro che cosa si intenda per “Dio” rischia di rendere l’intero ragionamento debole, e in molti casi fuorviante.
Cominciamo con il dire che “Dio” è un concetto umano. Dio è il nome che diamo al nostro credere che la vita possa avere un senso. Discutere se Dio esista, o no è futile. La questione non è tanto se Dio esiste. La questione è se crediamo, se ci sentiamo chiamati in causa, oppure se siamo completamente indifferenti al richiamo della trascendenza dell’esistenza umana. “Dio” rappresenta quella forza misteriosa – alla quale si possono attribuire nomi molto diversi – che ci induce alla ricerca della verità, del bello e del bene. In questo senso, “Dio” è comprensibile meglio come un verbo, piuttosto che come un nome. “Dio” non è un’esistenza dichiarata, ma un processo che si compie durante il nostro breve divenire. Accade soltanto quando e se fossimo disposti a compierlo.
Tutto il resto è un tentativo legittimo, spesso maldestro, che sfiora la depressione nella ricerca vana di assegnare un senso alla nostra esistenza e di trovare le risposte ai tanti perché.
“Come può coesistere una divinità misericordiosa – è quindi il vero interrogativo – con la manifestazione della violenza talvolta omicida della natura?”
La vera domanda secondo me è un’altra: se Dio è infinitamente buono, perchè nella natura c’è così tanta violenza? Perché la natura è così spietata, regolata com’è dalla legge “mors tua vita mea”? Dov’è l’amore di di Dio in tutto questo?
“Per giungere alla seconda domanda, parto Tommaso d’Aquino (1225-1274), secondo cui allorquando «Dio permette che ci siano i mali», lo fa per «per trarre da essi un bene più grande» (Summa Theologiae, III, q. 1, a. 3, ad 3).”
Scendendo nella realtà concreta, però, questo bene più grande non lo vedo. Ad esempio, quale grande bene è stato tratto dalle immani tragedie che hanno insanguinato il secolo scorso (le due guerre mondiali, i gulag, il genocidio cambogiano, quello nel Ruanda ecc.)? Quale “primavera umana, solidaristica e spirituale” è nata dalle suddette tragedie e dalle varie catastrofi naturali che sono avvenute nel mondo?
«La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; 20 essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.»
Romani 8, 19-23
La caducità dell’Uomo, con la perdita per sua libera scelta della piena comunione con Dio, ricade pienamente sulla Creazione stessa che era stata creata per essere al completo servizio dell’Uomo stesso.
Si può forse concepire un Uomo che vive nel suo peccato e nella lontananza da Dio, che nello stesso tempo viva nel “Giardino dell’Eden”?
D’altronde la Scrittura è molto chiara:
“All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare,
maledetto sia il suolo per causa tua!
Con dolore ne trarrai il cibo
per tutti i giorni della tua vita.
Spine e cardi produrrà per te
e mangerai l’erba campestre.
Con il sudore del tuo volto mangerai il pane;
finché tornerai alla terra,
perché da essa sei stato tratto:
polvere tu sei e in polvere tornerai!».” (Genesi 3)
E se scorriamo i Salmi, potremmo partire già da Giobbe, leggiamo di come «La terra tremò e si scosse;
vacillarono le fondamenta dei monti,
si scossero perché egli era sdegnato.» (Sal 17)
«Dio, tu ci hai respinti, ci hai dispersi;
ti sei sdegnato: ritorna a noi.
Hai scosso la terra, l’hai squarciata,
risana le sue fratture, perché crolla.
Hai inflitto al tuo popolo dure prove,
ci hai fatto bere vino da vertigini.» (Sal 59)
Cioè di come il Signore richiama tramite la natura, l’Uomo che crede di essere Dio, alla sua realtà. Mentre per chi confida:
“Dio è per noi rifugio e forza,
aiuto sempre vicino nelle angosce.
Perciò non temiamo se trema la terra,
se crollano i monti nel fondo del mare.” (Sal 45)
Così il Salmo 64 diviene tutta una promessa:
“A te si deve lode, o Dio, in Sion;
a te si sciolga il voto in Gerusalemme.
A te, che ascolti la preghiera,
viene ogni mortale.
Pesano su di noi le nostre colpe,
ma tu perdoni i nostri peccati.
Beato chi hai scelto e chiamato vicino,
abiterà nei tuoi atrii.
Ci sazieremo dei beni della tua casa,
della santità del tuo tempio.
Con i prodigi della tua giustizia,
tu ci rispondi, o Dio, nostra salvezza,
speranza dei confini della terra
e dei mari lontani.
Tu rendi saldi i monti con la tua forza,
cinto di potenza.
Tu fai tacere il fragore del mare,
il fragore dei suoi flutti,
tu plachi il tumulto dei popoli.
Gli abitanti degli estremi confini
stupiscono davanti ai tuoi prodigi:
di gioia fai gridare la terra,
le soglie dell’oriente e dell’occidente.
Tu visiti la terra e la disseti:
la ricolmi delle sue ricchezze.
Il fiume di Dio è gonfio di acque;
tu fai crescere il frumento per gli uomini.
Così prepari la terra:
Ne irrighi i solchi, ne spiani le zolle,
la bagni con le piogge
e benedici i suoi germogli.
Coroni l’anno con i tuoi benefici,
al tuo passaggio stilla l’abbondanza.
Stillano i pascoli del deserto
e le colline si cingono di esultanza.
I prati si coprono di greggi,
le valli si ammantano di grano;
tutto canta e grida di gioia.”
Sino a quando si compia la profezia di Isaia per il ritorno del Regno di Dio (che pure già ammoniva “Ecco che il Signore spacca la terra, la squarcia e ne sconvolge la superficie
e ne disperde gli abitanti.”), immagine della Gerusalemme Celeste:
«Ecco infatti io creo nuovi cieli e nuova terra;
non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente,
poiché si godrà e si gioirà sempre di quello che sto per creare,
e farò di Gerusalemme una gioia, del suo popolo un gaudio.
Io esulterò di Gerusalemme, godrò del mio popolo.
Non si udranno più in essa voci di pianto, grida di angoscia.
Non ci sarà più un bimbo che viva solo pochi giorni,
né un vecchio che dei suoi giorni non giunga alla pienezza;
poiché il più giovane morirà a cento anni
e chi non raggiunge i cento anni sarà considerato maledetto.
Fabbricheranno case e le abiteranno,
pianteranno vigne e ne mangeranno il frutto.
Non fabbricheranno perché un altro vi abiti,
né pianteranno perché un altro mangi,
poiché quali i giorni dell’albero, tali i giorni del mio popolo.
I miei eletti useranno a lungo quanto è prodotto dalle loro mani.
Non faticheranno invano,
né genereranno per una morte precoce,
perché prole di benedetti dal Signore essi saranno
e insieme con essi anche i loro germogli.
Prima che mi invochino, io risponderò;
mentre ancora stanno parlando, io già li avrò ascoltati.
Il lupo e l’agnello pascoleranno insieme,
il leone mangerà la paglia come un bue,
ma il serpente mangerà la polvere,
non faranno né male né danno
in tutto il mio santo monte». Dice il Signore.
Non ci sarà alcun “bene più grande” se non ci convertiremo e torneremo a Dio, il più grande Bene.
Bariom scrive: “La caducità dell’Uomo, con la perdita per sua libera scelta della piena comunione con Dio, ricade pienamente sulla Creazione stessa che era stata creata per essere al completo servizio dell’Uomo stesso.”
Mario, se ricordi, avevamo già parlato di ciò qualche mese fa, sempre su questo blog.
Ti rispondo come ti risposi allora: le catastrofi naturali (terremoti, maremoti, uragani ecc.) e la spietata legge che regola la vita degli esseri viventi (“mors tua vita mea”, appunto) c’erano già da molto tempo prima che l’uomo venisse creato, il che significa che esse non sono in alcun modo conseguenza del peccato originale. Se il “suolo è maledetto” non è per colpa dell’uomo: per ragioni che non conosciamo, esso è stato già creato “maledetto”, altro che Giardino dell’Eden! Capisco però che tutto questo mal si concilia con la visione di un Dio che è amore infinito, ma l’interrogativo resta: se Dio è buono perché ha creato una natura così spietata, dove vige la legge del più forte?