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Più scorrono i giorni che ci separano dal referendum sulla riforma costituzionale del prossimo 4 dicembre, più emerge con chiarezza uno scenario che non esito a definire preoccupante, vale a dire il progressivo instaurarsi, nel nostro Paese, di un regime dolce, che anche se non perseguita silenzia, che comanda più che governare e che, se non arriva a sporcarsi le mani con gesti clamorosi e gravissimi, è per il semplice fatto che non ne ha bisogno. A che cosa mi riferisco? Al rafforzarsi, per dirla con le parole di ieri di Massimo D’Alema, politico assai lontano dalla mia sensibilità, di un «blocco di potere» filogovernativo e padrone, tra l’altro, di buona parte del «sistema dell’informazione». Un «blocco di potere» che, se non si hanno i paraocchi, è davvero difficile non notare alla luce dello sbalorditivo allineamento ideologico – che l’approssimarsi al referendum di dicembre sta rendendo chiaro, per non dire lampante – di mondi distinti e teoricamente distanti eppure oggi straordinariamente convergenti; da Confindustria a settori importanti della Chiesa italiana, dalle ambasciate estere, che si concedono ingerenze inaudite, ai canali televisivi sui quali Renzi, negli ultimi giorni, si muove con una frequenza di orwelliana memoria e ripetendo sempre gli stessi slogan, quasi considerasse i telespettatori in difficoltà con l’udito.

Attenzione: non sto affatto, in un eccesso di allarmismo, attribuendo al Presidente del Consiglio la volontaria realizzazione di un progetto dittatoriale, anche perché non sono sicuro che l’ex Sindaco di Firenze, anche ne volesse, sarebbe in grado di concretizzare un simile progetto. Il mio pensiero è differente, volendo essere una segnalazione di qualcosa che sta ancora accadendo e che non è troppo tardi per denunciare. Senza infatti preoccuparmi di individuare burattinai occulti che poi occulti non sono (che l’ascesa a Palazzo Chigi del segretario del PD sia dovuta a Giorgio Napolitano e goda del placet di Washington credo sia, ormai, il segreto di Pulcinella), quello che qui intendo sostenere è che – al di là di chi e quanti siano coloro che siedono nella cabina di regia – ciò a cui in queste settimane stiamo assistendo con  colpevole passività non è normale. Per nulla. Non è cioè normale che la quasi totalità della stampa italiana sia, di fatto, favorevole ad un progetto di riforma costituzionale che, nella più rosea delle ipotesi, pare molto discutibile. Non è normale che, nell’indifferenza quasi generale, le poltrone di direttori di giornali ostili al governo – si pensi al caso di Maurizio Belpietro, cacciato da Libero dall’oggi al domani – saltino, e tanti saluti alla libertà di pensiero.

Non è normale, continuando, che in Rai, da Nicola Porro a Bianca Berlinguer, tutti coloro che hanno osato smarcarsi da una certa linea, abbiano professionalmente avuto vita breve o difficile. E non è normale che fra tanti giornalisti che hanno intervistato il Premier, nessuno sia finora stato in grado di chiedergli con quale legittimazione uno mai neppure eletto parlamentare possa arrogarsi il diritto da una parte di governare strozzando il Parlamento a colpi di fiducia, e dall’altro di promuovere un estesissimo cambiamento della Costituzione dopo che la Corte Costituzionale, cancellando il Porcellum, ha consentito alle Camere di continuare operare solo in base al «principio di continuità dello Stato», che si applica in due casi estremi – quando le Camere vengono prorogate dopo il loro scioglimento fino a nuove elezioni o quando vengono sciolte e poi riconvocate per convertire in legge i decreti, due ipotesi che prevedono un limite temporale di tre mesi – e che tutto consiglia fuorché di mettere mano alla Carta, peraltro con una maggioranza ondeggiante. Ecco, tutto questo non è assolutamente normale.  E finisce con il dare ragione, paradossalmente, proprio a Matteo Renzi quando dice che il referendum sulla riforma costituzionale segnerà il futuro del Paese.

E’ proprio così. Solo che non lo segnerà, in caso passasse, velocizzando un iter legislativo già molto rapido né con tagli ai costi della politica di totale insignificanza, ma solo rafforzando un brutto clima, che non è tanto e solo – come si sente spesso ripetere – di divisione, ma più che altro di eliminazione del dissenso. Lo stesso caos  dei primi giorni della Giunta guidata da Virginia Raggi, unitamente alla frammentazione di un centrodestra acefalo e confuso, ha finito col favorire questo pensiero unico renziano, che non ha bisogno di una nuova Costituzione per impensierirci dal momento che è già reale. E ci mostra con chiarezza quanto il pluralismo, in questo Paese, sia in pericolo, per le ragioni poc’anzi illustrate e, credo, difficilmente contestabili. Anche per questo, direi soprattutto per questo, il prossimo 4 dicembre conviene votare NO. Perché il pluralismo è certamente un costo per la democrazia, i cui processi decisionali vengono a causa di esso rallentati. Ma una democrazia fondate solo sull’efficienza, sull’economicità e sulla rapidità, alla lunga non può non stuzzicare l’inquietante idea di quanto efficiente, economico e rapido sarebbe un sistema dove, a decidere e governare, fosse uno solo.

Giuliano Guzzo