OMOPARENTAL

 

 

 

 

 

 

Una delle leggende metropolitane più diffuse, anche fra persone di una certa cultura – e che con le mie orecchie ho sentito dare per certa pure da diversi professori universitari -, è che decenni di studi sull’argomento avrebbero inconfutabilmente appurato come, per il benessere di un bambino, sarebbe indifferente crescere in una famiglia cosiddetta tradizionale oppure con due papà e due mamme. Perché parlo di leggenda metropolitana? Non perché questi studi non esistano, ci sono eccome, ma perché la loro attendibilità – per ragioni che non si mancherà di sottolineare – viene ampiamente sovrastimata. Un esempio molto attuale aiuterà a capire.

Si prenda un recente studio pubblicato sul Journal of Developmental and Behavioral Pediatrics e subito enfaticamente presentato, anche da siti web italiani, come la prova che «i figli delle coppie omosessuali crescono sani e felici quanto quelli allevati nelle famiglie tradizionali». Ora, pur nel rispetto delle opinioni di ognuno, risulta doveroso – specie data la delicatezza dell’argomento – non fermarsi a titoli più o meno ad effetto e ad interpretazioni più o meno discutibili per andare a verificare se davvero il contenuto di questa ricerca possa giustificare toni tanto trionfalistici e, soprattutto, possa far ritenere superato il primato educativo della cosiddetta famiglia tradizionale.

Ebbene, uno sguardo anche superficiale basta a capire che pure questa ricerca fresca di pubblicazione – analogamente ad altre precedenti, della cui debolezza metodologica si è già scritto – tutto sia fuorché la prova che «i figli delle coppie omosessuali crescono sani e felici quanto quelli allevati nelle famiglie tradizionali». Per almeno cinque ragioni. La prima: uno che si sentisse dire che nelle famiglie arcobaleno i figli «crescono sani e felici» sarebbe subito portato ad immaginare, giustamente, verifiche puntuali sulle loro condizioni psicofisiche o almeno che, interpellandoli, si sia dato voce alla loro esperienza. Peccato che lo studio in questione si sia basato solo su interviste telefoniche ai genitori dei bambini stessi.

Ora, non occorre una cattedra universitaria per capire come: a) un’intervista telefonica a dei genitori, ancorché dettagliata, nulla dice sulla reale ed effettiva condizione dei figli; b) i cattivi genitori di solito non sono mai molto contenti di confessarsi come tali, tanto meno rispondendo a domande al telefono; c) le coppie omosessuali, specialmente in questa fase storica, hanno tutto l’interesse, comprensibilmente, ad accreditarsi come famiglie felici e serene. Queste prime considerazioni dovrebbero bastare, già da sole, a far capire come taluni entusiasmi per questo nuovo studio siano, per usare un eufemismo, un tantino esagerati. Ma andiamo avanti, perché è solo l’inizio. Un secondo limite è la dimensione del campione.

Infatti, se da un lato questa ricerca ha l’indubbio merito di basarsi sul National Survey of Children’s Health, sondaggio rappresentativo che ha portato ad avere quasi 96.000 questionari di nuclei familiari statunitensi con almeno un figlio di età compresa tra 0 e 17 anni al momento dell’intervista, dall’altro essa si è ridotta a confrontare appena 95 coppie di lesbiche e 95 coppie eterosessuali; il che non solo esclude le coppie composte da due uomini, ma determina una fortissima riduzione della dimensione dei campioni considerati e, come si sa, più due campioni sono numericamente ridotti più la significatività statistica delle loro eventuali differenze diviene – a meno che esse non siano macroscopiche – difficile da rilevare.

Non è un caso che lo studio di Simon Crouch – criticabilissimo per altre ragioni – avesse comunque un campione assai più vasto, pari a 500 bambini. Il terzo, direi decisivo aspetto critico di questa ricerca – i cui esiti, lo si sarà capito, son stati magnificati con troppa fretta – è che non solo è stata condotta su un campione di contesti affettivi assai ridotto, ma non ha considerato, per quantificare il benessere dei figli “studiati” tutta una serie di dati su costoro in termini di rendimento scolastico, problematiche a scuola, partecipazione ad attività sportive, depressione e bullismo. Perché questa omissione, data ricchezza di informazioni che in tal senso il NSCH offre? Perché cioè non includere ulteriori elementi nell’analisi? E’, converrete, una bella gran bella domanda e che non può non insospettire.

Una quarta criticità di questo studio è, per così dire, di natura politica. Come infatti è stato osservato, gli autori di questa ricerca – fra i quali non si può non notare i nomi di Henny Bos e Nanette Gartrell, entrambe lesbiche e militanti di organizzazioni LGBT – fanno parte del NLLFS, acronimo che sta per National Longitudinal Lesbian Family Study, una organizzazione che ha lo scopo di “sdoganare” l’omogenitorialità lesbica ottenuta tramite inseminazione con donatore. Quello che si dice, insomma, un piccolo grande conflitto d’interessi. Dicendo questo, sia chiaro, non s’insinua che l’orientamento sessuale di uno studioso renda le sue ricerche più o meno credibili, ci mancherebbe, ma a fronte invece d’una militanza politica ritengo sia legittimo avere qualche sospetto.

La quinta ed ultima criticità di questo studio, molto semplicemente, sta nel fatto che pur con tutti i limiti che presenta – e non sono né pochi né irrilevanti – qualche aspetto poco allegro sulle coppie lesbiche, rispetto alle altre, lo riscontra comunque; si è infatti visto come queste risultino maggiormente stressate e più inclini a litigare con i ragazzini rispetto a quanto fanno genitori eterosessuali: non proprio un dato rassicurante. Come mai, ci si a questo punto chiedere potrebbe chiedere, tanta enfasi su una pubblicazione simile? Cosa spinge a presentare con toni trionfalistici ricerche che, ad esser buoni, andrebbero prese con estrema cautela e certamente non possono essere considerate definitive? Fretta? Disattenzione?

Penso che per rispondere a questa domanda un buono spunto provenga da quanto sei accademici – nessuno dei quali, beninteso, con la fama di conservatore – ha diffuso nel febbraio dello scorso anno segnalando in sostanza i pregiudizi anti-conservatori e anti-cristiani che oggi dominano scienze sociali e dintorni. Il che probabilmente spiega da un lato come mai si continuino a pubblicare studi dalle metodologie discutibili e, dall’altro, motiva l’enfasi che a questi viene riservata. Un atteggiamento francamente ingiustificato e che, se il metodo scientifico conta ancora, non può portare a mettere in discussione il bene, per un figlio, rappresentato della famiglia unita e composta da padre e madre, che – come osserva il sociologo Mark Regnerus – è ancora una empirica e robusta verità.

Giuliano Guzzo