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«Ho un figlio, forse due», ha dichiarato nei giorni scorsi lo storico leader radicale Marco Pannella, spiazzando tutti: e verrebbe tanta voglia di credergli. Sul serio. Il sospetto è infatti che, attendibile o meno che sia questa dichiarazione, i figli di Pannella siano già numerosi non solo politicamente – da Rutelli a Quagliariello, da Capezzone a Della Vedova i nomi di una certa notorietà si sprecano -, ma anche, e soprattutto, culturalmente. Al punto che non sarebbe esagerato sostenere che, in una qualche misura, siamo un po’ tutti, ahinoi, eredi della cultura radicale; un’eredità che orienta le nostre opinioni ma della quale è possibile sbarazzarsi se e nella misura in cui se ne isolano i virus, i concetti che, talvolta a nostra insaputa, contaminano il nostro pensiero. I principali sono tre.

Il primo è quello della legalizzazione di un fenomeno come sola risposta alla clandestinità: è uno schema che la cultura radicale ha applicato già con successo all’aborto volontario – tanto è vero che persino coloro che, in teoria, si dichiarano contrari fanno subito marcia indietro non appena l’interlocutore di turno evoca lo spettro della clandestinità -, e che ora si vorrebbe applicare anche all’omicidio del consenziente, più noto come eutanasia. Affascinante e persuasivo, è però un ragionamento non solo fallace ma perfino pericoloso: se infatti fosse la diffusione di un fenomeno a fondare la necessità di liberalizzarlo, come opporsi, per esempio, ad una proposta di tassazione della corruzione, che porterebbe nelle casse dello Stato miliardi di euro utili per strade, scuole e asili nido?

Un secondo tormentone radicale è quello che contrappone la scelta al divieto. Proibire non serve, si dice, meglio lasciare il cittadino libero di scegliere. Trattasi di un argomento, anche in questo caso, a prima vista assai convincente. Per smascherarne la fragilità, tuttavia, basta ricordare, anzitutto, come i divieti riguardanti la sfera individuale – da quello di vendere i propri organi a quello che proibisce di circolare in motocicletta senza casco, a tanti altri ancora – non siano mai fini a se stessi bensì espressione, ciascuno a suo modo, della tutela dell’integrità e della dignità umana. Per neutralizzare la filastrocca radicale, inoltre, si può sottolineare come una volta che il Legislatore aprisse a talune pratiche – si pensi alla citata eutanasia – più che consentire scelte individuali, incoraggerebbe tendenze collettive, come prova l’epidemia di “morti legali” nei Paesi che le permettono.

Il terzo e forse più minaccioso refrain radicale è quello esaltante i “nuovi diritti”: il diritto all’aborto – la cui gravità viene fortemente ridimensionata dall’acronimo I.v.g. -, il diritto al figlio – da soddisfarsi con la fecondazione extracorporea, libera e illimitata -, il diritto a porre fine alla propria vita; e via di questo passo. E cosa c’è di male – si obietterà – in questo festival dei diritti? Apparentemente nulla. Il problema è che, a forza di concentrarsi sui diritti, si perdono di vista i doveri; a forza di puntare su quello che ciascuno vorrebbe vedersi riconosciuto, si eclissa ciò per cui tutti dovrebbero impegnarsi. I diritti individuali rischiano così di sovrastare i doveri, a partire da quelli comunitari. L’amaro sbocco dell’antropologia pannelliana rischia dunque di essere quello di una società dove tutti possono tutto (o quasi), ma non sanno perché; dove abbonda la libertà, ma difetta il senso. Dove governa l’emozione a scapito della Ragione.