Può un uomo avere centinaia, anzi migliaia di figli? Solo pochi decenni fa una simile domanda sarebbe bastata a far dubitare della salute mentale di chi l’avesse posta. Oggi invece, grazie a pratiche quali la fecondazione in vitro e l’utero in affitto, non solo quel dubbio ha assunto connotati realistici, ma potrebbe rivelarsi addirittura inevitabile, interpellando la coscienza di tutti. Grazie al commercio di sperma, infatti, si sono già verificati casi di padri con decine, anzi centinaia di figli – la classifica mondiale, allo stato, vedrebbe Bertold Wiesner (oltre 600 figli) in testa davanti ad Ed Houben (98) e Ben Seisler (75) – ma a quanto pare un giovane giapponese, tale Mitsutoki Shigeta, 24 anni, figlio di un ricco uomo d’affari, sia deciso a sbaragliare la concorrenza, in tutti i sensi.
Sia cioè per quanto riguarda il legame coi figli (a differenza dei “classici” donatori di sperma, pare voglia tenerli tutti, e nove dei suoi piccoli sarebbero stati già rintracciati in una palazzina di Bangkok, riadattata a vivaio), sia per quanto riguarda il numero (costui sarebbe intenzionato a divenire padre di 1000 figli). Ora, in realtà ancora non sappiamo quanto siano attendibili le notizie sul fanatico procreatore a catena, né se troverà davvero 1000 donne disposte a portare a termine altrettante gravidanze; ha relativa importanza anche la surreale finalità per cui questo figlio di papà ha dato avvio alla sua maratona spermatica (pare voglia farli votare, i suoi futuri figli, alle elezioni del suo Paese quando avranno raggiunto l’età giusta). Il punto su cui vale la pena interrogarsi è un altro, e riguarda il senso del limite.
Fermare Mitsutoki Shigeta sarebbe sbagliato? E’ giusto lasciare costui libero di ingravidare centinaia di donne, una dopo l’altra? Per il paradigma individualista, col quale siamo abituati, ormai quasi obbligati a ragionare pena l’accusa di coltivare nostalgie tiranniche, non solo è giusto che il giovane giapponese insegua il suo sogno, ma sarebbe inaccettabile solo pensare di criticarlo. Via libera al signore che voleva 1000 figli, dunque. Anche se questo, in realtà, non ci convince fino in fondo. Per quanto cioè persuasi dell’idea che i sogni siano sempre e comunque una bella cosa, resiste in noi – in ciascuno di noi – una sorta di sotterranea perplessità; come se nelle aspirazioni di quest’uomo rimanesse qualcosa di poco convincente, eccessivo, sbagliato.
Come mai? Perché difficilmente saremmo d’accordo con Mitsutoki Shigeta? Forse perché siamo tutti cattivoni e medievali? Improbabile. Per carità qualche estremista, in giro, ci sarà anche. Ma quando il senso del limite appare avvertito trasversalmente è dura cavarsela agitando i soliti spauracchi del fascismo o dell’inquisizione. Occorrerà invece ammettere il senso del limite e la critica alla simmetria fra lecito e possibile sono così diffusi per una semplice ragione: perché è scritto nel cuore di ogni uomo, così come nel cuore di ognuno, conseguentemente, è marcata una distinzione netta: quella fra Bene e Male. Non ci sono quindi solo l’opportuno e l’inopportuno, il conveniente e lo sconveniente. No: esistono anche Bene e Male.
Questo, si badi, è talmente vero che la distinzione fra Bene e Male non è affatto esclusiva del pensiero cristiano, così come non lo è il senso del limite. A questo proposito è stato pubblicato un bel libro coi contributi di diversi filosofi italiani, Il filo delle Parche (FrancoAngeli 2009), titolo che evoca l’antico mito secondo cui il filo della vita umana sarebbe tessuto, misurato e reciso, appunto, nell’antro delle Parche, luogo dell’indisponibile ed inaccessibile persino al potere di Zeus. Quindi già gli antichi, quando si trattava della vita umana, riconoscevano un limite d’azione persino al re dell’Olimpo. Al contrario, oggi il senso del limite, pur comunemente avvertito, a volte sembra svanire; quasi che a fissare argini alla Tecnica si commesse un delitto. Ed intanto si fanno strada le folli pretese di quanti, senza esserlo, si credono Zeus.
Bell’articolo! Oggi tanti non hanno perduto solo il senso del limite e non hanno smarrito soltanto il senso del bene e del male, ma hanno abbassato la loro vita umana quasi al livello stesso della vita delle bestie. L’animalizzazione dei rapporti, infatti, porta anche a questo, mentre la personalizzazione di essi, al contrario, eleva moralmente e spiritualmente la vita umana. Manca in tanti, soprattutto, il senso di responsabilità e conseguentemente la libertà dell’agire tende a trasformarsi in anarchia, nella misura in cui l’uomo perde il senso del “bene comune” e della vita stessa intesa come impegno e missione per edificare insieme agli altri un mondo migliore. Questa è, insomma, una strada che non spunta, un vero e proprio vicolo cieco, dal quale l’uomo stesso è destinato ad uscire stritolato. L’uomo che smarrisce Dio, infatti, e si illude di poter essere egli stesso “dio” perdendo, cioè, il senso di se stesso e del proprio limite, è destinato ad andare a sfracellarsi. Questo egotismo, insomma, e la perdita del senso della misura sono paradossalmente destinati al nichilismo e alla disfatta dell’essere umano.